Faccia un fischio chi si ricorda il Brachetto, quel frizzantino fresco e vivace rosolio d’uva dal sapore di fragola che fu un cult negli anni Settanta e Ottanta, almeno alle nostre latitudini subappenniniche. Ne faccia due chi – ancora a queste latitudini – ne ha bevuto almeno un calice in tempi recenti. Ma ne faccia tre chi sa che del Brachetto esiste anche una versione secca. Che non è nemmeno una novità assoluta, perché il sito del Consorzio ne pubblica una foto quasi sessantennale, una bottiglia del 1964 (quando, per inciso, Biondi Santi produceva una riserva di Brunello considerata tra le bottiglie “del secolo”, tra i Montalcino lovers). Triplice fischio richiesto anche, ma qui di sicuro la platea si allarga, a chi sa (e magari ne ha assaggiato un calice) dell’esistenza di Moscato del Piemonte secco e di un Asti dolce (dunque ancora Moscato) ma in versione Metodo Classico.
Eppur ci sono. Figli di un Piemonte che qualche snob oserebbe definire “minore” sol perché meno blasonato e incensato rispetto alle superstar langarole o al Monferrato più “nobile”. Segnatevi un nome: si scrive Alice, si pronuncia “àlice”, nulla a che vedere insomma con Bianconigli, Cappellai Matti e Regine croquettiste, e però pur sempre “paese delle meraviglie”, ed è un piacere raccontarvi un viaggetto breve ma intenso in questo piccolo mondo sospeso tra antichi saperi e moderne realtà. Paese delle meraviglie davvero, questo Monferrato Acquese (eh già, Acqui Terme con la millenaria cattedrale di San Pietro, la fontana La Bollente e le vestigia d’epoca romana è ad appena 8 km) operoso ed operaio, ricco di cultura del fare con le mani e con la testa, dallo straordinario paesaggio tutto colline e vigneti che si gode a 360 gradi proprio dal Belvedere, il punto più alto del piccolo comune di appena 800 abitanti. E non solo vino e vigne: per dire, là sotto c’è Ricaldone con la tomba e il museo di Luigi Tenco, e scusate se è poco, tanto per stare sul culturale, perché di “chicche” ve ne racconto poi qualcun’altra.
Alice Bel Colle, appunto: il paese che dà il nome anche alla cantina, cooperativa con un centinaio di soci – “Viticoltori insieme” è il significativo slogan – fondata quasi settant’anni fa, 350 ettari di vigneti tra i 250 e i 350 metri sul mare in terreni gessosi per i bianchi e marnosi per i rossi: di questi, 200 ettari a Moscato bianco (la varietà più pregiata), 60 a Brachetto, 50 a Barbera (immancabile) e i restanti 40 divisi tra Dolcetto, Cortese, Chardonnay e altra uva che finisce comunque in bottiglia solo per il 25 per cento dei 32mila quintali prodotti, a completare una gamma di 18 etichette (più 2 grappe e un aromatizzato da barbera) di cui 6 spumanti (le sorprese: Asti secco e Metodo classico), 3 nella linea “Vertici” (e c’è il Brachetto secco), 4 nella collezione “360°” (e c’è un altro Moscato secco, ma a tappo raso), 5 per “Le Casette di Alice”.
Particolare simpatico, queste due ultime linee riproducono in etichetta – sotto il logo a tre foglie, gialla, rossa chiara e rossa scura a richiamare i tre vitigni principi del territorio – le casette colorate che decorano la piazza centrale del borgo. In tutto, 120mila bottiglie sul mercato, niente gdo per carità, tutto horeca ed export con il 40 per cento di prodotto che va all’estero, in Europa, poi in Asia e negli Usa. Altro dettaglio non da poco, così si completa il quadro dei numeri e delle situazioni che piacciono tanto ai giornalisti, il consulente enologo capo è Beppe Caviola, tra i nomi più illustri del mondo vinicolo piemontese e non solo, ora affiancato da Marco Nosenzo, 28 anni,appena ma idee chiare e bella determinazione. E’ lui per esempio che “firma” il Cuvée Tresessanta, un’Alta Langa riserva, 36 mesi sui lieviti, prima vendemmia 2018, progetto-novità per ora limitato a 4mila bottiglie ma suggestione di belle ambizioni.
Gli assaggi rivelano sorprese e sensazioni di varia gamma. A cominciare dai rossi, provati a dire il vero in un contesto assai particolare, a cena nel centro di Acqui in un ristorante ricavato in un palazzo antico, l’ex Abbazia di Santa Maria Il Moncalvo di Filippo Tirrì e Angela Gervino, lui in sala lei in cucina con il giovane chef Luca Guidetti, ligure con esperienze in Toscana e in tv da Cannavacciuolo.
Bella prova per questi vini, a confronto con un tripudio di sapori tra battuta di fassona al coltello e batsoà di maialino di latte,
tortelli ripieni di coniglio e gnocchi di patate ripieni di bruss, risotti alla zucca blu e piccione arrosto, lumache in umido con crema di scorzanera e l’immancabile bollito misto alla piemontese con le sue salse. Ecco il Dolcetto d’Acqui doc Coste di Muiran: buon frutto, vinoso, non eccessivamente tannico il 2021, più ruvido ma concentrato e intenso il 2017. Poi la Barbera d’Asti docg Al Casò, da vigneti trentennali: colore intensissimo e profumi strabordanti, tipica espressione del territorio il 2021, fruttato aromatico e floreale il 2019, entrambe 14,5 di gradazione alcolica. Splendore nell’assaggio della Barbera d’Asti superiore docg Alix, annata 2019 vinosa e fruttata, annata 2016 setosa e di lussuosa rotondità, entrambe 15° di alcol. E poi la grande curiosità: si chiama MonteRidolfo, la denominazione è Acqui docg perché altro non si può per il Brachetto secco. Pigiatura soffice e fermentazione alcolica in vasche inox a temperatura controllata, poi sei mesi in acciaio e tre in bottiglia. Si assaggiano 2020 e 2018: sorpresa, è secco davvero anche se mantiene le tipicità aromatiche del Brachetto, la rosa e la fragola e magari il lampone, con un tannino che regala perfino persistenza, insomma si fa bere, lo vedrei perfino su una pizza, di sicuro con piatti orientali decisi di spezie. Dettaglio: il prezzo massimo dei rossi non arriva a 15 euro al pubblico.
L’assaggio dei bianchi punta ovviamente tutto sul Moscato bianco, uva regina di queste parti: 10mila ettari in 52 comuni di 3 province. E anche qui, gradevoli conferme e belle sorprese, e nei piattini volano ostriche, hai visto mai, se assaggio dev’essere, che abbia un senso. Anche con i Moscati dolci. Ma si parte dal Filarej, che è secco! Nei calici il 2021, 14 gradi, floreale, muschiato e sapido, e il 2020, che tende un pizzico a sauvignoneggiare, escono i tioli ma per fortuna resta una buona acidità. Poi si passa ai dolci: Le Casette 2022, neonato, che tuttavia è naturalmente dolce – niente zuccheri aggiunti, il residuo viene dal succo dell’uva – e naturalmente frizzante dalla fermentazione alcolica, e comunque non stucca. Due annate per il Paié, Moscato d’Asti Strevi (tipologia particolare, lo sapevate?) a tappo raso, il 2018 che mantiene buona acidità malgrado i 145 grammi/litro di residuo zuccherino, e il 2020 che si avvia a una strada tutta nuova: una piccola percentuale di uva stramatura appassita in pianta, e lo charmat più lungo per garantire longevità. Risultato, un gioiellino di profumi di frutta e fiori, fine e di dolcezza avvolgente. E infine, l’Asti Docg Metodo Classico: assaggio un 2013, presa di spuma nel 2014 e sboccatura l’anno di poi. Residuo naturale da succo d’uva, non fosse dolce non lo direi davvero un Moscato, ha ben altre ambizioni. Per la cronaca: prezzi al pubblico tra i 5,50 e i 7,50 euro, arriva a 18 il Metodo Classico.
E fin qui la c antina, che ha anche la sua brava vigna-museo, didattica e di collezione di uve autoctone e tipiche, perché come dice il vicepresidente Bruno Roffredo,
famiglia di produttori da generazioni, “dalla cooperazione e dall’attenzione che mettiamo in tutto nasce e aumenta la possibilità di scegliere le uve migliori”. Ma c’è dell’altro, nel territorio. C’è Mombaruzzo, il paese degli amaretti, dove si visita il negozio-laboratorio Moriondo Francesco: porta il nome di un economo di casa reale che nel Settecento si innamorò della cuoca di casa Savoia, da lì alla mandorla il passo fu breve,
come spiega Alessandro Lacqua, il titolare, che ti guida alla scoperta di questo autentico bijou da 20 grammi in vari gusti, il classico alla mandorla o il caffè, la frutta candita o la copertura di cioccolato, “tutti fatti a mano come gli gnocchi in casa”.
E naturalmente, in stagione in Monferrato non può mancare il Re del Bosco. E incontri Il Mago, all’anagrafe Franco Novelli, tartufaio e ristoratore.
Ti porta in tartufaia, ed esplode tutto l’orgoglio di campanile, dal “siamo stati i primi a organizzare le tartufaie in accordo con i proprietari dei boschi”, un lavoro che ha coinvolto 20 comuni e il Cnr ma lui cita anche testi del 1740 che raccontano come i Savoia andassero ad Acqui a prendersi i tartufi, fino al “questo è diverso dal bianco di Alba, sicuramente migliore”.
E via la caccia, con il suo lagotto Mike, 14 anni, fiuto eccezionale, e promette bene anche il figlio Ciacky. Mike annusa, cerca, trova.
Più tardi, quelle trifole Franco ce le gratterà sui tagliolini e sulle uova cucinati dalla mamma nel suo ristorante Vallerana, poco fuori dal borgo, bagnati con Dolcetto e Barbera.
Piemonte minore? Sì, ciao.