Semplicità e ascolto, perché “ogni nostra vino racconta una storia”. Magari non sarà proprio così originale, però aggiungeteci che lui si definisce “un talebano del vitigno secco”, in purezza insomma, poi metteteci pure che il “bollino” è arrivato una decina d’anni fa ma le sue vigne sono biologiche da sempre, condite con un’altitudine dei filari tra i 420 e i 510 metri sul livello del mare – a lui, insomma, il cambiamento climatico gli fa un baffo, anzi non gli fa che piacere – e avrete quasi completo il cocktail per capire una realtà come Querceto di Castellina. Che va specificato, perché come si sa nel Chianti Classico di Querceto ce n’è un altro, l’omonimo Castello esso pure storico centro di vigne e cantina, che però è un po’ più a nordest, 22 km se la prendete diretta per Panzano e Greve, 33 invece se ve la prendete larga e comoda via Radda e Lucolena.
Non si sbaglia più di tanto a pensare che siamo più o meno nel cuore del Chianti Classico più classico, perfino il toponimo è rivelatore, Querceto, la tipica costituzione vegetativa del territorio, le vigne in mezzo ai boschi di quercia. Vigne alte come si è detto, al confine tra Castellina e Radda, aria pura e fine, terreni particolari adatti a far nascere vini di fine eleganza: lo capì sul finire degli anni Novanta Jacopo Di Battista, il “lui” dell’inizio di questa storia, quando pensò di ripiantare tutti i vigneti dei terreni che il nonno Guido Masini aveva acquistato nel 1945. E dove però qualcosa si era già mosso, anche se nonno Guido i filari li aveva dati in affitto ai mezzadri:
Laura Masini, la figlia, con il marito Giorgio Di Battista, architetto, aveva intanto ristrutturato a fine anni Ottanta i quattrocenteschi casali-gioiello per farne ospitalità: 41 posti letto in 9 appartamenti e una suite
E con Jacopo e la sua famiglia il cerchio si è chiuso: lui pensa alle vigne e al vino con la moglie americana Mary al fianco a lavorare nel marketing, il figlio Filippo gestisce l’agriturismo con nonna Laura che è una gran cuoca e la cucina oltre a farla per gli ospiti e per l’attività di ristorazione la sa anche insegnare, e l‘architetto Giorgio fa da supporto burocratico, non di poco conto. All’altro fianco di Jacopo c’è poi Gioia Cresti, l’enologa esterna.
Tutto questo si traduce in 50-55mila bottiglie l’anno (“con un potenziale di 80mila, ma l’ideale sarebbe arrivare a 65mila”, dice Jacopo che però per crescere dovrebbe fare i conti con l’idea di una nuova cantina) da 11 ettari e mezzo di vigneto, in stragrande maggioranza piantati a Sangiovese, in particolare nel vigneto Belvedere, un po’ meno di 7 ettari , la zona del cru; poi ci sono Poggio, Campocorto, Campolungo e la Fonte – toponimi tipici della campagna – per arrivare fino al più recente, dove nasce il bianco Livia. Già, perché non c’è solo Chianti Classico e Sangiovese in purezza, a Querceto di Castellina: anche se poi nelle bottiglie si ritrova dell’altro. Come abbiamo avuto modo di vedere e assaggiare in un bel pranzo organizzato al Cibreo Caffè in centro, nel jardin d’hiver dell’Hotel Helvetia & Bristol, dove Jacopo ci ha presentato la gamma dei prodotti ma anche la moglie Mary, colonna e anche lei testa pensante soprattutto nelle strategie commerciali ma anche nelle idee per lanciare l’agriturismo, in particolare le cene in vigna e le collaborazioni con artisti e musicisti.
Bel pranzo, adatto a far conoscere cinque dei sei vini che compongono la gamma dell’azienda, a cominciare dal “benvenuto” con il bianco Livia – , spiega Jacopo, “dall’unica nipote di Querceto” –
che è un piacevole e profumato quanto inusuale, così suggerisce il produttore stesso, di Viognier e Roussanne.
Poi gustosissimi tortelloni di ricotta e spinaci al parmigiano, per due vini.
Primo, L’Aura Chianti Classico 2021, dedicato a mamma Laura, con l’etichetta che riporta a un piattino di caffè di nonna Nella del 1930: questo 2021 è giovanissimo, un campione ancora in imbottigliamento, sangiovese in purezza da tre vigneti che vede l’esordio in azienda del cemento con un 50% che fa però anche tonneau di terzo passaggio (18 euro al pubblico in vendita diretta).
Insieme, il Sei: è la Gran Selezione, ed è la nuova veste di questo vino che si è liberato del merlot, adesso si parla di 100% sangiovese, il cru dalla vigna principale in due zone con particolari selezioni clonali. Sentiamo il 2019, vino vecchio stile di bella acidità, del resto la vendemmia parte all’inizio di ottobre per poter conservare e amplificare tutte le migliori caratteristiche dell’uva; fin qui l’affinamento era in tonneaux nuovi per non più del 45%, adesso, spiega Jacopo, si sperimentano il tonneau grande da 700 litri e la botte da 25 ettolitri. Il nome gli viene “da un numero che per noi è ricorrente”, al pubblico va a 43 euro.
Piatto successivo, indubbiamente un’incursione nei ricordi del Fabio Picchi formato Caffè, assaggio di braciola taglio bistecca con bietole saltate. Lo accompagnano altri due rossi, due Igt.
Ecco l’opulento Podalirio 2019; merlot in purezza (ma era nato nel 1999 come solo sangiovese), in tutto 3200 bottiglie da 7mila piante, 18 mesi di barrique solo in parte nuova, assai apprezzato in Svizzera, a Chicago e nella vendita diretta dove è presente a 40 euro.
Ne costa 70 invece il Venti, presente solo nella vendita diretta in azienda (appena 1200 bottiglie prodotte), blend paritario di sangiovese e merlot: si chiama “Venti” ma si può leggere con la e accentata in entrambi i modi, “vénti” il numero a ricordare il ventennale dell’azienda, “vènti” come quelli – sorride Jacopo – che “sui nostri colli non mancano mai”.
Mancherebbe solo il Furtivo, a completare la gamma: rosato di Sangiovese leggero e brillante dal colore tenue della buccia di pesca, “un’idea di Mary – ammette Jacopo – che sinceramente è stata azzeccata perché piace molto ai clienti, soprattutto stranieri, che vengono in azienda tra le visite e l’agriturismo”. Quando si dice la famiglia.